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Lettori fissi

Un piccolo diario che ha come filo conduttore il mio amore per la montagna e per i viaggi in genere... ma anche pensieri e riflessioni su quello che mi circonda perché il vero esploratore è colui che non ha paura di spogliarsi delle ipocrisie e aprirsi all'ignoto.

martedì 28 ottobre 2008

L'eremo di S. Paolo a Ceniga

Vi voglio parlare di un posto isolato e silenzioso che si trova a nord della città di Arco e che merita una visita per la tranquillità ed il silenzio che regnano sovrani su questo luogo: l'eremo di S. Paolo.
Per arrivarci si può parcheggiare l'auto sotto la rupe del castello di Arco e proseguire a piedi verso Prabi in direzione nord; la strada è bella e scorre tranquilla tra i campi lungo l'argine destro del Sarca. Il sole dura a lungo e questa visita si può fare a qualunque ora. In alternativa si può arrivare fino a Ceniga e parcheggiare nella piazzetta centrale accanto alla fontana, ritornare indietro a piedi fino a prendere il ponte romano sulla destra che attraversa il Sarca e voltare a sinistra per trovarsi dalla parte opposta della strada precedentemente descritta.
Io comunque preferisco prendere la MTB e percorsa la stupenda ciclabile che collega Riva con Arco, proseguo in direzione nord fino all'inizio dell'abitato di Ceniga dove svolto a sinistra e faccio sosta presso il già citato ponte romano.

Le origini di questo manufatto sono oscure. L'originario ponte andò distrutto nell'antichità; l'attuale, nella sua forma romana, risale al 1719, come è testimoniato dalla lapide murata nella parte sommitale del ponte.

Il ponte del '700 fu demolito durante la Terza Guerra d'Indipendenza: il 21 luglio del 1866 il generale austroungarico Franz Kuhn, barone von Kuhnenfeld, preoccupato per l'avanzata di Garibaldi in Val di Ledro ordinò la distruzione di tutte le possibili vie di accesso alla città di Trento. Garibaldi non arrivò mai a Riva del Garda ma gli ufficiali austroungarici attuarono comunque la distruzione. Gli abitanti di Ceniga protestarono con le autorità dell'esercito per l'abbattimento del loro ponte e, per ottenere il risarcimento, tradizione sostiene che fu portata a Vienna la lapide del 1719, come prova dell'esistenza del ponte. Le autorità dell'Impero Austriaco riconobbero le ragioni dei residenti e fu ordinato all'esercito di finanziarne la ricostruzione. Ultimati i lavori, in fronte alla lapide settecentesca, venne murata una nuova lapide a testimonianza della riedificazione del ponte del 1868. 
Sulla spiaggetta sotto il ponte, i locali amano bagnarsi e prendere il sole nelle calde giornate estive.
Al termine del ponte voltando a sinistra (direzione sud) una piacevole e tranquilla strada si inoltra tra campi ordinati e silenziosi.
L'eremo di S. Paolo (XII secolo) si incontra a destra proseguendo per poco più di un chilometro; ad un'altezza di circa 50 metri, spicca sospeso e nascosto tra i lecci l'antichissimo fabbricato che ospitava l'eremita; la costruzione si raggiunge con una bella scalinata scavata nella roccia.
Realizzato nell'incavo di un sottoroccia calcareo del monte Colodri, era all'inizio una minuscola chiesetta con il soffitto affrescato che seguiva il movimento della pietra ed un piccolo altare. Ingrantitasi, una stanza ospitò per secoli gli eremiti. Durante la guerra la sua stanzetta segreta diede rifugio agli abitanti del posto durante le incursioni aeree.
L'edificio religioso è impreziosito da un ampio ciclo pittorico interno ed esterno di grande valenza con temi sacri e profani, realizzati tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo da uno dei tanti 'pittori itineranti' operanti nel Trentino tra il Medio Evo e il Rinascimento. All'interno è possibile ammirare sulla parete di sinistra un'ampia scena raffigurante l'Ultima Cena, mentre sulla destra si trovano rappresentati gli episodi della lapidazione di Santo Stefano e la conversione di San Paolo. All'esterno, sul lato rivolto a valle, è visibile un ciclo di affreschi che illustra scene profane di duelli tra armati che non ha precedenti nel panorama iconografico trentino. 
Il posto è di una suggestione unica; anche se non è difficile raggiungerlo, è improbabile incontrare turisti per cui diventa piacevole sedersi sugli antichi gradini della scalinata e "ascoltare il silenzio".
Ricaricate le "pile" è possibile riprendere la strada e dirigersi verso Arco.

domenica 26 ottobre 2008

Il castello di Gorizia

Siamo in un periodo dell'anno dove qualunque giornata di sole è un regalo prezioso da non lasciarsi sfuggire e, pertanto, raccolta la famiglia sono partito alla volta di Gorizia per visitarne il suo castello.
L'altura su cui sorge lo fa apparire visibile da gran parte della città e per avvicinarsi è sufficiente seguire le chiare indicazioni turistiche.

Il colle si ritiene sia stato abitato fin dall'età protostorica per la sua posizione strategica. Vi si accede da una passeggiata moderatamente ripida che, partendo dal suggestivo quartiere asburgico sottostante, con negozietti e architetture tipiche, costeggia la cinta muraria più esterna per confluire alla Porta Leopoldina (1660) movimentata da stemmi lapidei (in quello centrale e' raffigurata l'aquila bicipite della casa d'Austria).

La Porta introduce al Borgo Castello, formato da varie architetture in cui si conservano linee costruttive ed elementi originali tardomedievali o posteriori. La 'Terra di sopra', come veniva comunemente chiamata la cittadella compresa tra i bastioni esterni ed il Castello stesso visse il suo periodo di maggior floridezza e splendore sotto la reggenza del Conte Enrico II nel 1300 e si protrasse fino a circa la metà del 1500. Il Conte Enrico II, emancipò il borgo da un destino quasi esclusivamente militare, conferendogli una discreta autonomia commerciale. Nel Seicento nel borgo furono costruite diverse residenze nobiliari, le quali si erano aggiunte alle sedi di rappresentanza degli Stati Provinciali, a quelle del Comune e del Capitano. Le mura che costituivano il tratto caratteristico della città però ne condizionavano fortemente lo sviluppo restringendo l'area abitativa. L'espansione poteva avvenire ormai solo al di fuori del borgo stesso, dove di fatto si svolgeva la vita economica di Gorizia fin dai primi decenni del Duecento, quando, alla "villa" di Gorizia, fu concesso di tenere un mercato settimanale (1210 - Conte Mainardo II). Il progressivo incremento demografico e il trasferimento di quasi tutte le attività commerciali e mercantili al di fuori delle borgo, identificò la città di Gorizia con la sua parte inferiore al di fuori del borgo stesso. Nel 1542 pure gli Stati Provinciali, che rappresentavano l'autonomia del governo locale si trasferirono dal Castello alla 'Platea Nobilium'. Ormai al Castello non restava che la residenza ufficiale del Capitano, rappresentante l'autorità sovrana, in quanto anche la nobiltà goriziana aveva iniziato a disertare progressivamente la città alta ed a costruirsi le proprie dimore altrove. Il borgo, quindi, diveniva solo una zona periferica abitata da pochi nobili e tanti popolani.
Proseguendo verso il castello spicca la gotica Chiesa di Santo Spirito (1398-1414), ad aula unica e campaniletto a vela che assomma influenze nordiche e venete.
Nella gradevole cornice delle costruzioni antiche e di un verde curato si staglia il Castello,
il cui attuale aspetto, peraltro di notevole impatto emotivo, è il risultato di una successione di interventi che, dal primitivo assetto, segna la costruzione di un castello vero e proprio nel XIII sec. con i conti di Gorizia, cui si deve l'omonimo palazzo ancora superstite (con cinque bifore) e una prima cinta di difesa in legno, sostituita poi, nel Cinquecento, dal paramento esterno a tre piani, con torrioni, cammino di ronda e mura merlate in arenaria: opera questa resasi necessaria all'epoca dall'impiego ormai prevalente delle armi da fuoco.
Il castello quindi fu ampliato più volte per l'accresciuto potere dei conti, che all'epoca dominavano anche sul Tirolo e altri territori. Nel 1456 una disputa sull'eredità del Conte Enrico Cilli tra l'Imperatore Federico d'Austria ed il Conte di Gorizia Giovanni Mainardo porta ad uno scontro armato al seguito del quale quest'ultimo perde i possedimenti carinziani, Lienz e il castello di Bruck.

Nel 1462 il Conte Leonardo diviene l'ultimo Conte di Gorizia e sposa nel 1478 la Contessa Paola dei Gonzaga (a lato in un affresco della Camera degli Sposi del Palazzo Ducale di Mantova). Dal matrimonio non nascono eredi e, pertanto, la Contea di Gorizia entrò nell'orbita dell'Impero Asburgico, così che nel 1500, alla morte di Leonardo, il feudo fu assunto dall'imperatore Massimiliano I d'Asburgo.
La dominazione asburgica riconvertì il castello da baluardo di difesa a caserma e prigione, come era successo altrove.
Esso venne gravemente danneggiato dai bombardamenti della Prima Guerra Mondiale che semidistrussero la città.
Negli anni '30 fu promossa la restituzione architettonica del maniero nella sua essenziale foggia cinquecentesca.
Gli arredi che lo completano, di varia provenienza, creando una atmosfera d'altri tempi, risalgono invece al Sei-Settecento e consentono di effettuare un primo approccio con la più nobile produzione del mobile friulano.
Oltre al già citato palazzo dei conti di Gorizia, si segnala quello degli Stati provinciali, nel cui salone spiccano le insegne di 56 famiglie nobili e lo stemma della contea.
Ricca la raccolta di quadri che impreziosiscono vari ambienti di rappresentanza e non.
Molto didattiche la sezione al pianterreno e le parti esterne, in cui ci si può accostare alla vita militare quotidiana e alle diverse armi in uso nel Rinascimento.
Splendido il panorama che si gode dal camminamento di ronda su Gorizia e Nova Gorica.

sabato 25 ottobre 2008

Il Vittoriale degli Italiani

"Ardisco offrire al popolo italiano tutto quel che mi rimane - e tutto quel che da oggi io sia per acquistare e per aumentare col mio rinnovato lavoro - non pingue retaggio di ricchezza inerte ma nudo retaggio di immortale spirito. Già vano celebratore di palagi insigni e di ville sontuose, io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e trasfigurazione. Tutto, infatti, è qui da me creato o trasfigurato. Tutto qui mostra le impronte del mio stile, nel senso che io voglio dare allo stile. Il mio amore d’Italia, il mio culto delle memorie, la mia aspirazione all’eroismo, il mio presentimento della Patria futura si manifestano qui in ogni ricerca di linea, in ogni accordo o disaccordo di colori. Non qui risanguinano le reliquie della nostra guerra? E non qui parlano o cantano le pietre superstiti delle città gloriose? Ogni rottame rude è qui incastonato come una gemma rara. La grande prova tragica della nave "Puglia" è posta in onore e in luce sul poggio, come nell’oratorio il brandello insanguinato del compagno eroico ucciso. E qui non a impolverarsi ma a vivere sono collocati i miei libri di studio, in così gran numero e di tanto pregio che superano forse ogni altra biblioteca di solitario studioso. Tutto qui è dunque una forma della mia mente, un aspetto della mia anima, una prova del mio fervore. Come la morte darà la mia salma all’Italia amata, così mi sia concesso preservare il meglio della mia vita in questa offerta all’Italia amata."
Con questo atto Gabriele D'Annunzio donava all'Italia la sua residenza sul Lago di Garda: il Vittoriale.
E' la cittadella monumentale cha il D'Annunzio allestì e abitò negli anni '30 a Gardone Riviera, pittoresca cittadina sulla sponda lombarda del lago.
Straordinario e insuperato insieme di edifici, vie, piazze, teatri, giardini, parchi e corsi d'acqua.
Già nel Settembre del 1917 il poeta volando sul Garda scrisse "Tutto è azzurro, come un'ebbrezza improvvisa, come un capo che si rovescia per ricevere un bacio profondo. Il lago è di una bellezza indicibile".
Successivamente all'impresa fiumana "O Italia o morte!" lo stesso Mussolini disse: "Gabriele D'Annunzio è come un dente marcio o lo si estirpa o lo si ricopre d'oro...io preferisco ricoprirlo d'oro".
Fu così che il Vate, avendo aderito in parte al pensiero fascista, poté costruire il Vittoriale a spese del regime, con il patto che tutto sarebbe stato donato allo stato dopo la morte del poeta. Ecco spiegato il nome "Vittoriale degli Italiani" poiché più che di D'Annunzio era di tutto il popolo italiano e da qui la massima che leggiamo alle soglie del Vittoriale "Io ho quel che ho donato".
Il progetto dell'intero complesso si deve all'architetto Giancarlo Maroni; lo stesso che progettò l'edificio che funge da ingresso alla cascata del Varone e la centrale idroelettrica della Rocchetta alle porte di Riva del Garda. I lavori di trasformazione dell'abitazione originaria iniziarono nel 1921 e terminarono dopo la morte del poeta. Nel 1925 venne dichiarato monumento nazionale.
Acquistato il biglietto si accede al giardino attraverso il viale principale;
prima di arrivare alla residenza del sommo poeta, sulla destra si giunge al teatro all'aperto
dove l'acustica è perfetta e l'effetto scenografico creato dal lago è stupendo; fu ideato dallo stesso D'Annunzio per la rappresentazione delle sue opere e per l'esecuzione di concerti.
Ritornati sul viale si prosegue e, nei pressi della Prioria, si arriva al semicerchio dell'Esedra con il tempietto delle memorie dannunziane. Era questa la prima tomba del Vate e adesso raccoglie i simboli della Patria che tanto gli furono cari: la bandiera di Fiume, l'acqua del Piave, il gagliardetto del suo reggimento e la terra del cimitero di Pescara.
Accediamo adesso alla Piazzetta Dalmata, cuore del Vittoriale; sotto un porticato ammiriamo la Fiat Tipo 4 con la quale il D'Annunzio, nel 1919, compì la marcia su Fiume.
Nella piazzetta attendiamo il nostro turno perché all'interno degli ambienti residenziali è possibile accedere solo accompagnati dalle guide.
Chiamata Prioria, la villa di D'Annunzio contiene più di 33.000 libri, la maggior parte ancora da aprire. Tutte le stanze sono caratterizzate dalla penombra poiché la luce diretta dava fastidio al poeta che soffriva di fotofobia. Qui non è possibile scattare foto. All'ingresso sono presenti due stanze una per gli ospiti indesiderati e una per per gli ospiti desiderati (Mussolini fu ricevuto in quella degli indesiderati). Continuando, arriviamo allo studio del poeta, che vi morì il 1° marzo 1938;
sulla scrivania sono ancora presenti i suoi occhiali. Forse la stanza più suggestiva è quella dove il poeta si ritirava a meditare, piccola, ma molto ricca di oggetti, il letto ricorda nella forma una culla (rappresentante la nascita), e una bara (simbolo di morte).
La sala da pranzo è caratterizzata da una tartaruga a capotavola ed è curioso notare che D'Annunzio soleva dire ai suoi ospiti che quella tartaruga era morta di indigestione; un modo "velato" per invitare gli ospiti a mangiare di meno (probabilmente io non sarei stato un gradito ospite in casa D'Annunzio). Nel corso della visita incontriamo lo studio del Poeta detto "Officina" con tre scalini e per accedervi bisogna piegarsi per evitare il basso architrave; ciò per obbligare il visitatore ad inchinarsi al cospetto del luogo dove si respirava arte e lavoro. Questa è l'unica stanza dove la luce diurna non è schermata. La stanza da letto è caratterizzata invece dalla presenza di numerosi oggetti di origine esotica: sete persiane, maioliche cinesi e piatti arabo-persiani. Il bagno è in stile francese e viene soprannominato anche bagno blu, per via del colore prevalente delle ceramiche e dell'arredamento composto da più di 600 oggetti.
Terminata la visita usciamo a vedere la luce gardesana: calda e accecante.
Dopo aver visitato l'auditorio, sul cui soffitto è appeso l'aereo SVA 10 con il quale lo scrittore compì il famoso volo su Vienna, ci inoltriamo nei giardini che coprono il 50% circa del Vittoriale; verso il lago è stata montata, su uno sperone, come a navigare su un mare di cipressi, la prua della nave "Puglia", donata dalla Marina Militare nel 1925, che al suo interno ospita un museo con modellini navali e gli arredi originali della stessa R. Nave Puglia.
E' questo il punto più sorprendente di tutto il sito;
la visione di questa nave che dalla montagna sembra scendere verso l'azzurro specchio del "Benaco marino" è grandiosa.
Salendo verso monte troviamo un edificio
dove è custodito il MAS che effettuò la Beffa di Buccari
e al suo fianco giungiamo al Mausoleo
sulla cui sommità sono custoditi i caduti del Natale di sangue. Qui sono disposte in cerchio dieci arche, sette delle quali sono i sepolcri dei legionari fiumani, compagni di guerra del poeta.
Nel centro, quasi librata nell'aria, l'arca in porfido di Gabriele d'Annunzio.
Siamo sul punto più alto del Vittoriale;
il colpo d'occhio sulla macchia mediterranea che ci circonda e sul placido lago è di una dolcezza indicibile.
Ancora una volta la mente vola alta a riflettere sulle miserie umane e su quello che è capace di costruire una natura lasciata libera di esprimersi.
Dopo queste riflessioni prendiamo la via del ritorno e ci fermiamo ad ammirare, nel boschetto delle magnolie, l'Arengo che è un recinto marmoreo di colonne e sedili dove il Comandante riuniva i compagni d'arme; il posto, per il fatto di essere in disparte e di sembrare abbandonato è di una suggestione unica.
Poco lontano c'è il piccolo cimitero dei cani del poeta.
Terminata la visita raccomando vivamente una visita al paese di Gardone che offre una bella passeggiata sul suo raffinato lungolago.
Per maggiori informazioni sulla visita, gli orari ed il costo dei biglietti visitate il sito ufficiale del Vittoriale molto ben realizzato.

venerdì 24 ottobre 2008

Sogni

Lassù, tra le inviolate cime, 
volano le aquile in perenne osservazione,
fischiano le timide marmotte prima del letargo,
corrono i giovani stambecchi in esplorazione,
soffia il vento che anticipa l'inverno.
Più sotto il bosco rosseggia circondato da uno scarlatto tappeto,
gli scoiattoli volteggiano tra i rami per le ultime provviste,
il lago si riempie delle suggestioni di toni pastello
giallo, arancio, verde scuro.
Seduto sulla riva, 
in compagnia dei miei pensieri, 
tra umide nebbie una città medievale 
vedo rispecchiarsi nelle sue acque.
Torri e mura merlate le fanno da corona, possenti ma eteree.
Accanto a me una ninfa del bosco appare bellissima 
a guidare i miei pensieri 
in questo paesaggio irreale dove il tempo non ha significato 
dove idee e sentimenti si elevano 
là dove i mughi lasciano posto ai pascoli ingialliti.
E' pura poesia ma...
a poco a poco le nebbie si dissolvono, 
le torri svaniscono,
la ninfa vola via leggera.
A circondarmi rimangono il bosco, il lago, le amiche montagne, 
i miei pensieri.
Ho forse sognato?
Non importa...
su quel lago ho conosciuto la felicità,
mi sono sentito vivo,
ho provato splendide emozioni in simbiosi
con i monti che si preparano al grande freddo,
ho vissuto un attimo fuggente.
Un caro saluto
                           Trekker

giovedì 16 ottobre 2008

Il Monte Brione

Nel bel mezzo della piana del Sarca sorge in splendido isolamento il Monte Brione che si frappone tra i centri abitati di Riva del Garda e Torbole.
Non è una montagna vera e propria, è piuttosto un rilievo di natura calcarea-marnosa con altezze tipiche di una collina, ma le strapiombanti pareti che guardano ad oriente gli conferiscono l'aspra fisionomia tipica della montagna; la sua forma ricorda un enorme spicchio di limone adagiato su di un fianco. Dal livello del lago si eleva di circa 310 metri, e tocca l'altezza massima di 376 m s.l.m.
Per la sua posizione strategica questo rilievo ha sempre attirato l’attenzione dell’uomo; la storia fortificatoria di questo monte inizia nel Medio Evo.
Nel 1175 i fratelli Federico e Odorico d’Arco, conferiscono al loro vassallo, Isolano da Nago, l’investitura del castello di Brione e di alcuni oliveti; ma è solo nel periodo Asburgico che il monte conosce uno rapido sviluppo.
Già prima dell’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo, il 28 giugno 1914, l’Imperial Regio Governo Austriaco da tempo aveva provveduto ad attrezzare adeguatamente il settore fortificato meridionale che si affaccia sul lago di Garda (Festungabschnitt).
A seguito della perdita della Lombardia, dopo la seconda guerra d’Indipendenza si inizia la costruzione dei forti sul Brione tra il 1860 e il 1862.
In effetti la spedizione di Garibaldi attira l'attenzione sulla direttrice italiana di avanzata dalla Val di Ledro verso Riva e Trento.
A causa del progredire delle tecniche costruttive, tra il finire dell’800 e la Prima Guerra Mondiale, su questo monte è possibile osservare tutte le tipologie di fortificazioni Austroungariche; in nessun altro posto è possibile trovarle insieme.
Per salire sul Brione si deve arrivare al Porto di S. Niccolò che segna la fine di Riva verso oriente; qui è possibile lasciare la macchina o la bici; volendo è possibile salire anche con la MTB ma prendiamocela comoda e godiamoci la passeggiata.
Il forte S. Niccolò fu costruito tra il 1860 ed il 1862 per conto del ministro della guerra ed era posto a difesa e controllo della strada maestra tra Riva e Torbole.
E’ un forte di prima generazione, o scuola francese, casamatta non armata di pietra a vista, ben lavorata a calce. Era armato di 4 cannoni da 150 mm. in barbetta, cioè in postazione su terrapieno allo scoperto.
Nel 1911 fu dotato anche di 4 cannoni da 80 mm. a tiro rapido.
Oggi possiamo vedere una costruzione a due piani in ottimo stato che è sede del Centro Studi Lago di Garda dell’Agenzia Provinciale per l’Ambiente.
Alle spalle del forte S. Niccolò imbocchiamo un sentiero ben curato e iniziamo la salita per arrivare fino alla sommità del Brione.
Questo percorso, della durata di circa 2 ore, offre la possibilità di ammirare scorci del lago contornati dalla particolare vegetazione alpino-mediterranea.
E' davvero strano iniziare una escursione circondati da bellissimi uliveti che producono un extravergine di ottima qualità.
Percorrendo il sentiero panoramico, come detto, incontriamo forti, roccaforti, trincee e una serie impressionante di postazioni militari. Solo per limitarci alle più importanti, nell'ordine passeremo accanto al Forte Garda, alla Batteria di Mezzo e al Forte S. Alessandro posto nell'estremità nord del monte che controllava il versante di Arco.
Il sentiero prende rapidamente quota ed il panorama ne guadagna in spettacolarità.
A dieci minuti dalla partenza arrivo al Forte Garda che è un punto di osservazione unico sul lago, un vero balcone naturale in posizione invidiabile. Fu costruito fra il 1907 e il 1909 sul ciglio del Brione, poco sopra il forte S. Niccolò.
E’ un forte di terza generazione, un capolavoro di architettura militare. Costruito in cemento armato, con una sistemazione razionale degli ambienti al suo interno che potevano ospitare fino a 200 uomini. Il tetto era occupato dalle torrette mod. Schumann, con obici da 100 mm. La cupola più elevata serviva da osservatorio ma dal lago risultava perfettamente mimetizzato e aderente al terreno tant'è che il sentiero passa sul tetto della costruzione.
Era dotato di un potente riflettore da 90 cm a scomparsa, nidi di mitragliatrici, fuciliere scudate e due pezzi di piccolo calibro.
L’interno non è visitabile ufficialmente ma con molta cautela e superando alcuni ostacoli naturali, effettuo comunque una rapida visita. Gli ambienti sono imponenti e in buono stato di conservazione; i soffitti sono in calcestruzzo, la struttura portante è integra e i muri sono ancora intonacati.
A qualche centinaio di metri di distanza, si trova, nascosta dalla vegetazione, l’ingresso di una galleria molto ampia che adduce alla cisterna del forte. Percorse alcune gallerie arrivo nel fossato dell'opera e da li, superando un intricato cespuglione sono nuovamente sul sentiero.
Continuando a salire trovo l'imbocco di una galleria di un centinaio di metri al termine della quale una scalinata porta ad un locale osservatorio armato a suo tempo con alcune mitragliatrici. Il panorama che si gode è veramente splendido.
Uscendo dalla galleria il sole mi abbaglia; riprendo la salita. Lo sguardo spazia a sinistra su Riva del Garda e sulla Rocchetta mentre s destra domina il paese di Torbole e il Balbo. Le soste sono frequenti;
i windsurf sotto di me giocano con il complicato capriccio del vento e disegnano merletti bianchi sul velluto blu del lago.
Riprendo la salita che in breve mi porta nei pressi dell'antenna dove, sul ciglio del Brione, si trova la Batteria di Mezzo.
E’ stata edificata negli anni 1885-1888: è un forte di seconda generazione in stile leggero o trentino con tipologie neo medioevali o neo rinascimentali (fortificazioni che venivano costruite sui dossi, perché le tagliate non erano più sufficienti al controllo del territorio).
Poteva ospitare 70-80 uomini e controllava la zona di Nago-Torbole. Era dotata di 4 pezzi da 120 mm, mod. 1876 montati in cannoniera, due pezzi di calibro inferiore posizionati fronte lago e di una cupola osservatorio. è possibile salire sul tetto dell'opera per godere di ampi scorci panoramici.
Nel dopoguerra fu prelevato tutto il ferro, abbattendo, anche con l’esplosivo, tutti i soffitti; nonostante lo stato di abbandono in cui giace, la struttura portante appare in ottimo stato.
Anche la Batteria di Mezzo fu dotata di un sistema sotterraneo. Tutti gli ingressi sono chiusa da cancelli in ferro e pertanto non mi è possibile effettuare la visita interna.
Procedendo in direzione nord giungo presso il forte S. Alessandro.
Costruito nel 1860-1862 e parzialmente ristrutturato negli anni 1908 e 1911, quando fu dotato di una stazione radiotelegrafica e di una polveriera. Si tratta di un forte di prima generazione cioè una casamatta non armata, di pietra a vista ben lavorata e calce.
La sua funzione era di controllo della zona di Arco e come supporto agli altri forti.
Era dotato di 4 pezzi da 120 mm. modello 1876, e riarmato successivamente con 4 cannoni da 150 mm. La polveriera era dotata di 2 cannoncini contraerei. Del forte oramai rimangono solo dei ruderi (molto suggestivi).
Per la sua particolarità e ricchezza di specie vegetali che vi trovano riparo, la zona in cui mi trovo è stata dichiara biotopo dalla Provincia. Il Brione è uno dei 68 biotopi protetti del Trentino dove differenti ambienti naturalistici come il bosco di latifoglie, l'olivaia ed i prati aridi si incontrano. La coltivazione dell'ulivo è da secoli tradizione sul Brione e lungo tutto il versante Rivano una serie di terrazzamenti con migliaia di piante di ulivo caratterizzano il paesaggio. Negli ultimi due mesi dell'anno viene effettuata la raccolta ancora con metodi tradizionali.
Per gli amanti della mountainbike il Monte Brione è diventato una sorta di palestra a pochi minuti dal centro di Riva.
Ritorno al punto di partenza per lo stesso itinerario percorso all'andata e mi godo ancora gli splendidi panorami sull'intero bacino del Garda.
Cartografia di riferimento: Kompass 1.35.000 Alto Garda-Val di Ledro (ISBN 3-85491-674-4).

sabato 11 ottobre 2008

Il castello di S. Servolo e il Monte Carso

Oggi, una bellissima giornata autunnale (direi di fine estate) invitava ad approfittare per organizzare un'uscita; detto fatto, decido di salire al Castello di S. Servolo che, nonostante sia vicinissimo a Trieste, non ho mai visitato in quanto è in Slovenia e non ero mai riuscito a trovare la rotabile per arrivarci. Da quando le frontiere sono cadute è possibile giungervi a piedi dall'Italia attraverso un bel sentiero che parte da S. Dorligo della Valle (Dolina).
Parcheggio, quindi, la macchina nei pressi del cimitero del paese e, attraversata l'adiacente provinciale che collega Crogole a Prebenico, mi trovo di fronte ad uno spiazzo con cartelli turistici
e la sorgente Sgurenz (140 m. s.l.m.) la cui acqua proviene dall'altopiano di S. Servolo e che, secondo i locali, sarebbe dotata di misteriose proprietà benefiche. 
Rifornita la borraccia (non si sa mai) imbocco la carrareccia che sale decisa e, al primo bivio, tengo a destra seguendo le indicazioni per Socerb (San Servolo) su una pietra posta nel mezzo della biforcazione. 
Dopo poco siamo ad un altro bivio dove prendo a sinistra aiutato da altre indicazioni su un pino. 
La carrareccia si trasforma in sentiero e continuo a salire superando un cartello che indica l'approssimarsi del confine e, subito dopo, il cippo confinario; proseguo ora in territorio sloveno. Circondato da un bosco di carpini e roverelle, in breve sono in vista di una poderosa bastionata di calcare che incombe sul paesaggio; è il cosiddetto ciglione carsico sulla cui linea sommitale è arroccata la mia prima meta. Dopo trenta minuti di cammino esco dal bosco e il sentiero fa spazio all'asfalto del grazioso villaggio di Socreb; abbiamo oramai alle spalle il tratto più faticoso (che conviene affrontare con passo tranquillo per non esaurire subito la birra). Appena entrato in paese, sulla mia destra si aprono una serie di spettacolari panorami sull'intero golfo di Trieste e la piana di Zaule. 
Sulla sinistra in alto incombe, invece, la sagoma del castello in bianca pietra d'Istria. 
Subito dopo la chiesetta del 1648 dedicata a S. Servolo giro a sinistra, in corrispondenza di un'insegna che indica la direzione per raggiungere il ristorante ubicato nel castello, 
e mi fermo ad osservare il "kal", lo stagno dove, in passato, si abbeveravano le mucche; 
al mio avvicinarmi un nugolo di rane si rifugia in acqua. 
Superato lo stagno, con il maniero di fronte, imbocco una bella scalinata che in breve mi porta alla base del castello (436 m.). 
Ciò che è possibile ammirare oggi è quello che resta di un ben più ampio corpo di fabbrica che è stato protagonista di accesi e sanguinari scontri. 
Il panorama che si gode dal castello è ampissimo e questo giustifica qui l'edificazione di un'opera come questa.
Il nucleo originale fu quasi certamente una torre  costruita dagli Istriani nel IX secolo per avvistare gli spietati Ungari. Inglobato nella diocesi di Aquileia, nel 1295 fu ceduto al comune di Trieste e diventa protagonista nelle lotte per il controllo della produzione e commercio del sale tra l'Austria e Venezia. Fino ai primi anni del '500 il castello passa di mano più volte. Nel 1508 con l'istituzione della lega di Cambrai promossa dal Papa guerriero Giulio II i conflitti si fanno più accesi e vedono fronteggiarsi la Trieste imperiale e Muggia datasi alla Serenissima sempre per il controllo del sale. In quell'anno il vicino castello di Draga in Val Rosandra venne attaccato dai Triestini; a questo episodio seguì l'attacco dei Veneti a Trieste che dopo un prolungato assedio con numerose artiglierie riuscirono a impossessarsi del castello di S. Giusto non ancora ultimato. I triestini pagarono 20.000 ducati come pegno per la sconfitta. Il breve periodo di pace fu tormentato dallo scoppio di un'epidemia di peste e da un violento terremoto; nonostante ciò, il 3 ottobre del 1511 i Triestini agli ordini del Capitano Nicolò Rauber, fiancheggiati dai soldati imperiali di Cristoforo Frangipani, penetrano nella piana sottostante di Zaule con lo scopo di prendere tutte le fortezze venete e portare l'attacco finale a Muggia. Tutti i manieri difensivi caddero ma Muggia, difesa dal Capitano Giovanni Farra (il Bombizza), tenne duro fino all'arrivo, via mare, di alleati provenienti da Capodistria. L'assedio fu tolto e mentre facevano rientro a casa, i soldati triestini, di propria iniziativa, per evitare problemi in futuro, dal momento che erano in zona, attaccarono e rasero al suolo il castello di Moccò (oggi si chiamerebbe guerra preventiva). Con il castello di S. Servolo ora in mano triestina, i Capodistriani tentarono di corrompere il governatore austriaco con una grossa somma di denaro. Il governatore allora finse di accettare l'accordo ma avvisò la guarnigione triestina che, forte di un centinaio di soldati, attese i nemici nei pressi del castello; questi giungendo nottetempo non si accorsero della trappola e appena superato il ponte levatoio furono attaccati e massacrati. Nel 1521 Nicolò Rauber ottenne dall'Imperatore Carlo V la signoria di S. Servolo per la fedeltà mostrata alla corona. Nel 1529 i Capodistriani del Doge portano con successo un attacco alle saline di Zaule distruggendole ma non arrivarono al castello. Anche nel secolo successivo il maniero resta una roccaforte austriaca; il futuro Capitano cesareo di Trieste Benvenuto VI Petazzi acquista la signoria del castello, lo arma con due cannoni e chiama a difenderlo una guarnigione di temibili Uscocchi croati fuggiti da Croazia e Bosnia conquistate dai Turchi. Nel 1615 Venezia tenta ancora la conquista di S. Servolo con il provveditore Benedetto da Lezze ma il Petazzi ottenne una piena vittoria nella battaglia combattuta nei pressi delle saline. Non furono pochi i soldati di Venezia che, feriti dagli schioppi uscocchi, annegarono nei campi di sale allagati. L'anno seguente il nuovo provveditore Giovanni Belegno porta un nuovo attacco al castello questa volta con truppe albanesi che avanzano sin sotto le mura mettendo a fuoco le infrastrutture periferiche senza riuscire, però, a violarlo. Il castello non viene più interessato da eventi bellici. Negli anni successivi, cessata la guerra del sale, passa a vari acquirenti. Alla fine del 1700 un fulmine provoca un incendio che distrugge i tetti; l'incuria che segue lo trasforma in un rudere. Agli inizi del '900 viene restaurato e durante la Seconda Guerra Mondiale viene occupato dall'esercito jugoslavo e, considerato sito di importanza strategica, fu annesso allo stato slavo a seguito delle trattative di pace. Nel 2000 apre il ristorante all'interno della struttura. Quanta storia è passata davanti a queste mura.
Indugio volentieri nei dintorni del maniero; la giornata soleggiata e i colori autunnali sono un mix perfetto. Con l'immaginazione vedo le opposte fazioni che si affrontano nella piana tra Trieste e Muggia o sotto le mura del castello.
Arrivato a questa splendida meta, decido di proseguire alla volta del Monte Carso. Alle spalle del castello c'è un basso terrapieno dietro il quale un comodo sentiero si infila nel bosco in direzione nord; questo sentiero si sviluppa lungo il ciglione carsico con numerosi scorci sul paesaggio sottostante. Nei pressi di uno di questi belvedere noto una solitaria garitta militare abbandonata, uno dei tanti segni della trascorsa guerra fredda che in gran parte si è sviluppata su questa linea di confine. 
All'uscita del bosco, dieci minuti di cammino dal castello, incrocio una carrareccia che prendo verso sinistra. La strada procede molto piacevolmente per prati intervallati da cespugli di sommacco che in questa stagione si accendono dei colori del fuoco. 
Al primo incrocio piego a sinistra con il sentiero che procede in leggera discesa entrando nuovamente nel bosco. Al successivo incrocio siamo nuovamente sull'orlo del ciglione e prendo la direzione di destra. Il sentiero procede in leggera salita con i consueti bei panorami sulla sinistra. Procedo sempre dritto, ignorando una strada che proviene da destra e in breve accedo ad una radura che anticipa la vetta del Monte Carso. 
Da qui si lanciano i deltaplanisti.
La salita alla cima del Monte Carso è molto facile e breve; sulla sua vetta boscata (457 m.) è possibile osservare numerosi resti di strutture militari. 
Senza calcolare le soste al castello e ai vari belvedere, l'escursione fino a questo punto è durata un'ora e mezza.
Scendo dalla parte opposta alla ricerca del bivio che da l'accesso all'alta via Vertikala tracciata una trentina di anni fa dalla SPDT (Associazione Alpina Slovena di Trieste) e che collega con un unico percorso la Val Rosandra con il Monte Forno. L'unico indizio che segna questo bivio si trova una ventina di metri dopo la cima, sulla sinistra: un segno bianco-azzurro su un piccolo albero indica uno stretto passaggio tra la vegetazione infestante che in primavera ed estate rende molto difficoltosa la progressione su questo sentiero. Usando i bastoncini come machete avanzo in discesa con grande fatica; i numerosi segni azzurri non sempre sono visibili e un paio di volte sono dovuto tornare indietro alla ricerca della traccia perduta (fa tanto Indiana Jones). Questo strazio dura per circa un centinaio di metri; credo i peggiori cento metri di sentiero mai percorsi. Un cippo confinario mi indica il ritorno sul suolo italiano. 
Fortunatamente la vegetazione infestante termina lasciando spazio ad un sentiero panoramico che per ghiaioni perde rapidamente quota. Nel frattempo mi rendo conto di avere mani e braccia graffiate dai numerosi rovi. Procedo sempre in discesa con il sentiero che, dopo il cartello indicatore di distanza del confine di stato, volge a sinistra e diventa comodo e rilassante. Sulla destra incrocio la Vedetta di Crogole, una struttura semicircolare a quota 245 metri con bella vista e panchina che invita ad una breve sosta. 
Ascoltando gli ancora lontani rumori del traffico sottostante, solo ora mi rendo conto del silenzio che regna in questi boschi. Sul parapetto della vedetta una lucertola si crogiola immobile al sole. 
Riprendo a malincuore la discesa che dopo una decina di minuti mi porta ad un ponticello in legno che scavalca un ruscelletto che però in questa stagione è asciutto; si tratta della sorgente Maganjevec. Compiuti pochi passi sono arrivato al primo incrocio che avevo incontrato quando ho iniziato la salita per cui il percorso ad anello è oramai completato. Ancora qualche minuto di discesa e arrivo alla sorgente Sgurenz, inizio e termine di questa passeggiata che ha comportato due ore e mezza di camminata senza considerare le soste.
Dislivello: 317 m.
Difficoltà: E (fare molta attenzione all'inizio della via Vertikala).