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Lettori fissi

Un piccolo diario che ha come filo conduttore il mio amore per la montagna e per i viaggi in genere... ma anche pensieri e riflessioni su quello che mi circonda perché il vero esploratore è colui che non ha paura di spogliarsi delle ipocrisie e aprirsi all'ignoto.

martedì 26 ottobre 2021

Lo stambecco

Nell'estate appena trascorsa, finalmente, sono riuscito ad avvistare gli stambecchi.
Non è difficile incontrarli ma per qualche strana ragione non li avevo ancora incrociati in alcuna delle mie numerose camminate in quota. Nelle due settimane trascorse a cavallo tra le Alpi Carniche e Giulie ho avuto modo di poterli ammirare per ben due volte e in un numero considerevole di esemplari.
Questo splendido animale (Capra ibex), specie simbolo delle vette alpine, con la sua inconfondibile sagoma robusta e compatta e la forte muscolatura, è particolarmente adatto a vivere nei difficili ambienti montani, resistendo ai lunghi e rigidi inverni delle nostre Alpi. 
Spettacolari e ardite sono le sue evoluzioni sui versanti rocciosi scoscesi, al limite della praticabilità, delle nostre montagne.
Il maschio adulto raggiunge il peso di 70-120 chili mentre la femmina non va oltre i 70 chilogrammi.
Il mantello è folto, lungo e scuro in inverno, più corto e leggero in estate, con tinte variabili tra il grigio e il marrone. 
La caratteristica che più di tutte caratterizza questo ungulato, e lo rende unico, sono le corna ricurve, presenti nei maschi come nelle femmine ma che nei primi hanno accrescimenti annuali ragguardevoli (7-9 cm) e aggiungono lunghezze di 85-100 cm.
Lo stambecco è un animale gregario, con una struttura sociale che tende a una netta separazione tra i sessi. Solo nel periodo invernale, tra  novembre e gennaio, i maschi si spostano alla ricerca delle femmine per accoppiarsi. In questo periodo tra i maschi sono frequenti le lotte a colpi di corna per stabilire delle gerarchie e accoppiarsi con il maggior numero di femmine.
Lo stambecco è un animale che non teme l'uomo e si lascia avvicinare anche a pochi metri di distanza perché si sente al sicuro tra le sue rocce. Questo ne ha fatto una preda piuttosto facile in passato quando si era estinto su gran parte dell'arco alpino. Verso la fine del XVIII Sec. era estinto sulle Alpi orientali e centrali e, poco più tardi, anche su quelle occidentali, dove sopravvisse con una piccola popolazione di meno di cento individui sul Gran Paradiso.
L'istituzione della Riserva Reale di Caccia dei Savoia e successivamente del Parco Nazionale del Gran Paradiso consentirono di salvare la specie con numerosi progetti di reintroduzione in varie zone delle Alpi.
Oggi la caccia allo stambecco è vietata sull'intero territorio nazionale.
Un caro saluto.


sabato 19 giugno 2021

Segnale internazionale di soccorso alpino

Quando si va in montagna, anche per una semplice passeggiata, occorre sempre prestare la massima attenzione a dove si mettono i piedi, a non perdere l'orientamento, alle previsioni del tempo, all'incontro con vipere ecc.
Nonostante le mille attenzioni può capitare l'eventualità di un problema più o meno serio che può immobilizzare l'escursionista per il timore di complicare ulteriormente il problema o per l'oggettiva impossibilità a muoversi per qualche trauma. Se si è in una zona dove la copertura della rete cellulare è assente (capita di frequente in montagna), occorre conoscere i segnali per richiamare l'attenzione di altri escursionisti presenti nella zona. 
Anche se non si è subito alcun incidente, è necessario prestare attenzione ad eventuali segnali provenienti da altri escursionisti in difficoltà; d'altronde nel silenzio della montagna non è difficile udire tali segnali provenienti anche da notevole distanza.
Il segnale di  soccorso venne pensato nel 1894 da Clinton Thomas Dent e fu rapidamente adottato internazionalmente.
impariamo questi segnali; possono salvarci la vita.
Per chi si trova in difficoltà: lanciare sei volte nello spazio di un minuto un segnale acustico/ottico e ripetere gli stessi segnali dopo che è trascorso un minuto.
Per chi percepisce il segnale di soccorso: lanciare tre volte nello spazio di un minuto un segnale acustico/ottico e ripeterlo dopo un minuto di intervallo.
I segnali vanno ripetuti fino a che il soccorritore non è in vista di che chiede aiuto.
Ecco perché nel mio zaino non mancano mai il fischietto e una torcia elettrica.
Un caro saluto e buona montagna!

martedì 11 maggio 2021

Rifugio "Eremo dei Romiti"

Dopo tanto grigiore, finalmente questo maggio ci regala una splendida domenica di sole. Non si può certo restare a casa. 
La meta di oggi sarà il Rifugio Eremo dei Romiti sulla cima del Monte Froppa nel gruppo dolomitico Montanel-Cridola in Cadore.
Con l'auto arriviamo a Domegge di Cadore e, seguendo le indicazioni per i Rifugi Padova, Cercenà e Eremo dei Romiti, scendiamo al Lago di Centro Cadore; attraversiamo il ponte e giriamo a sinistra su stradina asfaltata che costeggia il lago fino al parcheggio dei prati di Nàvare (700 mt.) dove lasciamo il nostro automezzo.
Un bel cartello ci indica subito la strada per la nostra meta.
Cominciamo lentamente a salire la strada forestale per il Monte Froppa; dopo la prima rampa guadiamo il torrentello Saceido
e troviamo un bivio.
Proseguendo dritto si arriva all'Eremo dei Romiti per strada forestale; noi decidiamo di prendere il sentiero 347 "Via Crucis" a destra,
con le 15 stazioni in legno sistemate (tranne l'ultima) sugli abeti del magnifico bosco che ci accingiamo ad attraversare. 
Il sentiero si fa subito ripido e il fondo è caratterizzato da radici che fuoriescono agevolando in qualche modo la salita. 
Per avere un vago senso della strada percorsa si possono prendere a riferimento le stazioni della Via Crucis che riportano in numeri romani il progredire della Passione di Cristo;
l'ultima stazione sarà la XV e saremo oramai prossimi alla meta ma siamo ancora agli inizi.
Il bosco è molto fitto e fornisce una piacevole frescura.
Lungo il sentiero, alcune panchine invitano a una sosta.
Tra il fitto bosco ogni tanto emergono le meravigliose Marmarole che si stagliano chiare contro un cielo dal blu intenso.
Il sentiero supera a tornanti sempre più frequenti la pendice sud del Monte Froppa, fino al pianoro dove sorge il capitello affrescato dedicato a San Giovanni Battista che rappresenta la stazione finale della Via Crucis.
Il 24 giugno, ricorrenza di San Giovanni Battista, per tradizione la parrocchia di Domegge celebra una messa.
Qui una sosta è d'obbligo, il bosco lascia spazio alla luce dorata del sole; alcune panche invitano al riposo e alla meditazione.
Proseguendo sul sentiero in breve siamo in vista del rifugio,
in cinque minuti si arriva alla cima del Monte Froppa (1167 m.).
Per salire fin qui ci abbiamo impiegato circa un'ora e mezza superando un dislivello di 470 metri.
Magnifica è l'immagine del nostro Tricolore con l'Antelao in secondo piano.
Il panorama è davvero ampio, sotto di noi l'abitato di Domegge di Cadore sorvegliato dai massicci del già citato Antelao e, poco più indietro sulla sinistra, del Civetta.
Su questo poggio, da trecento anni, vigila l'Eremo dei Romiti.
Singolare è la storia di questo edificio. Grazie alle oblazioni di facoltosi benefattori locali, venne edificato attorno al 1720 per volontà del frate francescano Giovanni Maria Pinazza da Domegge che qui si ritirò affascinato da un ideale di vita ascetica. Il suo esempio venne imitato da altri religiosi cadorini e si andò così a formare una piccola comunità di frati francescani terziari nominati "i Romiti", dedita alla preghiera e alla coltivazione di patate, ortaggi e produzione di miele. Questo fu l'unico convento mai esistito in Cadore. La vita dei religiosi era definita dalle Costituzioni e Regole, una serie di disposizioni che scandirono e normarono le attività quotidiane e i rapporti con i civili; ad esempio, le relazioni con le donne, con le quali non potevano intrattenere conversazioni ed era per loro proibito l'accesso al convento.
Accanto all'eremo nel 1724 venne edificata la chiesetta dedicata a San Giovanni Battista.
Si narra che il fondatore, morto nel 1755, fu sepolto sotto il pavimento della chiesa.
Il convento fu soppresso il 20 aprile del 1810 per decreto di Napoleone che impose la chiusura dei monasteri religiosi in tutta Europa e il complesso venne così abbandonato.
Nel 1992 l'architetto Adriano Costantini donò l'intera proprietà al Comune di Domegge che provvide al restauro nel 2009 con contributi europei. Dal 2011 sono stati finanziati i lavori di restauro e recupero della chiesetta annessa all'eremo.
L'eremo, splendidamente restaurato preservando l'atmosfera e il profumo di antico, è ora un simpatico rifugio di proprietà del Comune di Domegge. Sempre aperto nel periodo estivo e i fine settimana durante tutto l'anno, offre 24 posti letto.
Purtroppo le misure legate alla pandemia non ci consentono l'accesso al suo interno per cui ci accomodiamo ad un tavolo sullo spiazzo antistante e ordiniamo qualcosa per rifocillarci.
I gestori sono molto gentili e simpatici.
Dopo esserci goduti vista splendida e sole gagliardo decidiamo di intraprendere la strada del ritorno.
Questa volta per scendere prendiamo la strada forestale che presenta forti pendenze ed è esposta al sole per ampi tratti;
per fortuna siamo in discesa e quindi facciamo poca fatica (a parte quella per frenare in alcuni tratti).
In corrispondenza di un grazioso rustico
c'è una bella fontana con acqua freschissima; è l'unico punto di rifornimento per questo percorso.
Continuiamo a scendere perdendo rapidamente quota fino a quando Elena, che mi precede, richiama la mia attenzione. Sul sentiero una vipera prende placidamente il sole. 
Con attenzione la superiamo e raggiungiamo la Casera Malauce (842  metri di quota) immersa in un paesaggio idilliaco
con alcuni cavalli al pascolo.
Qui la strada presenta pendenza più dolci e possiamo goderci questo ultimo tratto di escursione.
Belle baite 
e costruzioni alpine punteggiano il percorso e invitano a una rapida sosta. 
In breve siamo in vista del parcheggio dove abbiamo lasciato l'auto.
Un ultimo sguardo verso l'alto ad ammirare l'onnipresente Antelao preceduto dalla Chiesa di Domegge
ed eccoci giunti al punto da cui siamo partiti.
Un caro saluto.

martedì 4 maggio 2021

Il pane scuro dell'Alto Adige

Quando si entra in un negozio di alimentari in Alto Adige non si può non notare il classico pane scuro che è il filo conduttore dell'alimentazione del Tirolo meridionale.
E quando, da queste parti, si parla di pane non si può prescindere dalla segale.
Questo cereale, piuttosto rustico, arrivato sull'arco alpino in epoca romana, attorno all'800 a.C. può crescere anche a quote elevate, laddove altre varietà di cereali stentano a attecchire.
L'Alto Adige diviene nel tempo luogo di incontro delle coltivazioni di segale e frumento, ma mentre nei grandi centri l'afflusso delle granaglie (grano, avena, orzo, grano saraceno) era regolare, la popolazione rurale doveva ingegnarsi per conservare i propri alimenti a lungo. La famiglia contadina pertanto, in vista del lungo e rigido inverno, accumulava in dispensa scorte di grano e farina, ma anche di pane essiccato. Alla base della semplice alimentazione quotidiana vi erano la "mosa" (farina cotta nel latte)
e zuppe ad alto contenuto calorico, facilmente ottenibili dai vari cereali.
Preparare il pane nel forno di casa, al contrario, era cosa impegnativa e avveniva, quindi, solo due o tre volte all'anno. 
Si utilizzava una miscela di farina di segale e frumento con l'aggiunta di pasta acida.
Le pagnotte venivano poi fatte asciugare in soffitta in apposite rastrelliere di legno appese ai travi del tetto per evitare che i topolini potessero avere accesso al prezioso alimento. 
Ogni famiglia aggiungeva al pane di segale aromi diversi (a soli o in miscela): anice, coriandolo, cumino, finocchio, trigonella.
Ancora oggi questo semplice ed indispensabile alimento viene prodotto rispettando la tradizione.
In Alto Adige vi sono tre forme di pagnotta presenti praticamente da sempre.
Il Paarl è formato da due pani doppi ed è tipico della Val Venosta. 
Il Breatl è invece una pagnotta piatta e rotonda diffusa nella Val Pusteria. 
Il Pidl, infine, è tipico della Val d'Ultimo ed è formato da tre pezzi di pasta: in Val d'Isarco prende il nome di Dreierle
Il pane di segale può essere portato a casa come souvenir culinario in quanto si conserva per molti giorni.
Un caro saluto.

martedì 30 marzo 2021

Bardolino

Stiamo continuando la nostra breve vacanza sul Lago di Garda. Provenendo da Torri del Benaco, ci dirigiamo verso sud alla volta di Bardolino, paese dedito alla coltura dell'olivo e della vite.
Il clima è mite e, dopo un inverno particolarmente difficile, ci godiamo la corsa con il nastro d'asfalto che scorre sotto le ruote della nostra auto e splendidi scorci sul placido lago alla nostra destra.
Entriamo nel grande anfiteatro morenico del Garda con dolci colline che digradano verso il lago.
In breve giungiamo a Bardolino e lasciamo l'auto a nord del paese in un comodo parcheggio, gratuito in bassa stagione.
Ci dirigiamo verso il lungolago;
sarà che siamo attorno a mezzogiorno ma qui troviamo animazione senza, tuttavia, assembramenti.
Il nome Bardolino trae l'origine da Bardali, figlia del Re Aulete, fondatore di Mantova, in un'epoca in cui il territorio fu teatro di violente dominazioni germaniche. Tuttavia la zona era frequentata già dal III millennio a.C. da popolazioni palafitticole. In seguito anche i Romani apprezzarono il clima mite di questi luoghi. 
Tra il XI e il X secolo, Bardolino, come tutti i paesi rivieraschi, cominciò a dotarsi di mura e castello per contrastare le invasioni degli Ungari; con gli Scaligeri le fortificazioni furono rafforzate e ampliate fino a racchiudere l'intero borgo. Oggi rimangono poche vestigia di questo sistema di difesa come, ad esempio, una vetusta torre merlata e pendente prospiciente la darsena.
Durante la nostra passeggiata abbiamo modo di notare la conformazione a pettine tipica di un villaggio di pescatori, in cui le case, poste in successione a partire dalla spiaggia, e le vie, perpendicolari al litorale, agevolano il trasporto delle barche sulla terraferma. 
Lasciamo temporaneamente la riva del lago e ci inoltriamo nel centro storico;
immagino che in estate ci sia un vivace passeggio nelle caratteristiche vie con allegri bar, locali e eleganti negozi aperti fino a tardi.
Ritorniamo verso il lago per un aperitivo per poi ripercorrere il bel lungolago.
Le variopinte imbarcazioni si dondolano pigramente al sicuro nel piccolo porto.
Il sole ci scalda il cuore e vaghiamo senza meta lasciandoci trasportare dalle nostra gambe.
Anche un germano reale sembra apprezzare questa magnifica giornata.
Pregevoli edifici si affacciano sul lungolago e contribuiscono a dare signorilità a questa cittadina.
Il tempo a nostra disposizione si sta esaurendo. Rientriamo verso la nostra auto.
Con la visita di Bardolino abbiamo esaurito i nostri tre giorni sulla costa veronese del Lago di Garda. Ci ripromettiamo di tornarci presto non appena le misure anti-covid potranno essere allentate.
Un caro saluto.